Come tutti quelli che mi conoscono sanno bene mi interesso di informatica fin dal 1982, quando i primi PC (64 kB di RAM, 2 floppy da 360 kB e un processore 8086 da 16 bit a 4,77 MHz), facevano capolino anche in Italia. Questo per dire che, forse, qualcosa di informatica ne capisco. Ovviamente, poiché in famiglia e fra gli amici ho millantato il credito di essere un esperto di computer, ogni qualvolta in Tv o sui quotidiani si parla di “attacco hacker” tutti mi guardano con aria interrogativa, quasi aspettassero il verbo del guru. E io ogni volta mi incavolo, perché la definizione non è esatta e, francamente, è fuorviante. Quindi cerco di fare chiarezza.

I primi hacker, si racconta, sono comparsi al MIT, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology da dove sono uscite molte delle più grandi teste pensanti del pianeta, fin dagli anni 20 ed erano degli studenti che si divertivano ad esplorare i vietatissimi tunnel e corridoi sotterranei dell’istituto. In quegli anni, ma credo ancora oggi, le sfide fra le varie congregazioni di studenti erano molto vivaci e presto dai tunnel si passò alla rete telefonica e poi alla rete di computer.

L’hacker, quindi, è solo una persona curiosa che vuole capire come sono fatte le cose e come funzionano. Nel mondo dei computer questo significa capire come sono stati scritti i programmi, cercare di entrare nel codice sorgente per vedere quello che hanno fatto altri e imparare, oppure sistemare eventuali errori. I dieci comandamenti dell’hacker, come tramandati al MIT, recitano:

  1. Sta’ attento: la tua sicurezza, la sicurezza degli altri e la sicurezza di chiunque tu stia hackerando non dovrebbero mai essere compromesse.
  2. Sii sottile: non lasciare alcuna prova che tu sia mai stato lì.
  3. Lascia le cose come le hai trovate, o meglio.
  4. Se trovi qualcosa di rotto, chiama F-IXIT [il numero interno per segnalare problemi alle infrastrutture].
  5. Non lasciare danni.
  6. Non rubare nulla.
  7. La forza bruta è l’ultima risorsa degli incompetenti.
  8. Non hackerare sotto l’effetto di alcool o droghe.
  9. Non hackerare da solo.
  10. Sopra ogni cosa, fa’ uso del tuo buon senso.

Ora, ditemi voi se i soggetti che, quest’estate hanno danneggiato i server e rubato dati in mezzo mondo con i famigerati attacchi balzati agli onori delle cronache possono essere definiti hacker. Io dico di no, anzi sarò preciso: sono criminali informatici, un cancro che andrebbe combattuto dai governi e dalle forze dell’ordine con le stesse armi, con gli stessi mezzi, con la stessa determinazione con la quale si combattono le mafie, il terrorismo, il narco traffico, la pedofilia.

La criminalità informatica ha preso esempio, se non è addirittura un ramo, dalle criminalità organizzata. Basa la sua forza di attacco su una schiera di “picciotti” che lavorano alle tastiere, basa la sua capacità di guadagno su analisti qualificati che per ogni server attaccato sono capaci di calcolare il valore del riscatto e il prezzo dei dati sottratti. Una rete criminale i cui capi possono essere ovunque, forse anche nei palazzi del potere economico, e che reinvestono e lavano i loro torbidi guadagni in imprese apparentemente legali che, magari ottengono anche finanziamenti pubblici.

E allora, per favore, non chiamateli hacker. Chiamateli per nome e cognome: CRIMINALI INFORMATICI. È più lungo ma almeno li mette al loro posto fra la feccia dell’umanità.