La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada.

Naturalmente la citazione non è mia e sono la persona meno adatta per entrare nell’analisi di questo versetto della Bibbia. Ma di una cosa sono certo, oggi più che mai: le parole hanno cambiato e possono cambiare il mondo, possono cambiare la storia. Usiamo ogni giorno le parole, impariamo a conoscerne e a rispettarne il potere.

Le parole sono armi, armi molto più potenti di quanto siamo capaci di immaginare. La violenza inizia e la violenza finisce nella comunicazione, con le parole. Proviamo a guardare con occhi diversi le risse fra i giovani di questi ultimi giorni e scopriremo, senza impegnarci più di tanto, che lo scontro fisico è nato da una sensazione di mancanza di rispetto o di disprezzo espresso verbalmente da una delle parti. È la violenza verbale a precedere ed accompagnare la violenza fisica. Per ogni persona che ha appena preso un pugno reale in faccia, ce ne sono dieci, cento che hanno ricevuto un pugno verbale nello stomaco.

Dal punto di vista di un osservatore che si dichiara imparziale ci sono grosse differenze fa violenza fisica e violenza verbale. Un attacco fisico è palese e inconfondibile. Provoca dolore fisico e lascia un segno visibile che traduciamo, freddamente, in una prognosi: “Guaribile in 10 gg s.c.”.

La violenza verbale è diversa, non si vede in superfice, non può essere curata e refertata in un Pronto Soccorso. Eppure scende in profondità nell’io della vittima e li si consuma e lo consuma lentamente. Non troveremo mai nessuno disposto ad aiutarci, che ci offra la sua solidarietà, che ci dia assistenza. Forse un Tribunale, dopo aver prodotto quintali di carte ed esserci consumati lentamente per anni, potrà darci giustizia. Con questa premessa possiamo non giustificare chi pensa di dare “a sé stesso la propria quietanza con un semplice pugnale”?

Forse la risposta quest’inquietante interrogativo è, ancora una volta, nelle parole che possono ferire ma spesso possono anche guarire. Chi non ricorda la frase “I have a dream”? Nel momento in cui le ascoltiamo le colleghiamo a chi le ha pronunciate e perché. “Io ho un sogno”, una frase che è entrata nella storia, che ha cambiato la storia. Anche se una mano assassina a messo a tacere la voce che l’ha pronunciata, quella frase resta viva attraverso quelli che in quelle quattro parole credono. Parole più potenti di una testata nucleare.

E ci sono altre parole altrettanto potenti che tutti, senza essere leader di una comunità possiamo utilizzare: “Grazie”; “Mi dispiace”; “Ti Voglio bene”; “Pace” e mille altre. Sono le parole che creano le nostre vite e il nostro mondo, che ci fanno scegliere a chi e a che cosa prestare attenzione, cosa vogliamo realizzare.

Solo attraverso le parole possiamo sperare di sviluppare il nostro essere “umani”, possiamo sperare di costruire quei legami che creano le comunità, che ci fanno sentire parte di qualcosa di grande. Quando, per una ripicca, per partito preso, smettiamo di parlare, stiamo spezzando quella fragile rete che sostiene la nostra comunità, negando a tutti il sacrosanto diritto di imparare gli uni dagli altri. Senza comunicazione, l’ignoranza porta all’incomprensione e l’incomprensione troppo spesso porta alla violenza.

Si è parlato molto della necessità di nuovi modelli di comunicazione per la società del terzo millennio, per tentare di risolvere i conflitti, passare dalla discussione al dibattito, evitando la violenza, fisica o verbale che sia. Ci deve essere un modo migliore di comunicare e sicuramente l’uso opportuno delle parole aumenta la capacità di risoluzione dei conflitti. L’obiettivo non è eliminare il dissenso, anche vigoroso, ma rendere possibile un disaccordo produttivo sostituendo la violenza e l’elusione con relazioni ricche, ricche di parole.

Ogni qualvolta comunichiamo con altre persone mettiamo in gioco molto più di quello che immaginiamo. Forse dobbiamo rivedere il modello meccanico di comunicazione interpersonale basato sul freddo schema “mittente-ricevente”. Le messaggerie istantanee, proprio perché istantanee, la posta elettronica, la PEC e le altre diavolerie digitali ci hanno ridotto, come individui, a semplici mittenti o riceventi di messaggi ignorando, in gran parte, la complessità della comunicazione.

La comunicazione è il processo per la creazione di significato, il processo attraverso il quale costruiamo e navighiamo nelle nostre vite. Forse abbiamo bisogno di un modello di comunicazione completamente diverso e coraggioso per arrivare dove vogliamo andare.

Forse i principi dell’improvvisazione Jazz possono fornire modelli promettenti per le relazioni. Pur rimanendo attenti e rispettosi di alcune regole fondamentali della musica, i jazzisti si sfidano costantemente a innovare senza alienarsi gli altri nella squadra, senza perdere di vista le reazioni del pubblico. I riff (le frasi musicali che si presentano con frequenza all’interno di un brano) più noti sono chiamati, dai puristi del Jazz, “comps”, abbreviazione di “trappole di competenza”. Il suonatore che li sceglie ripetutamente è visto come debole. A differenza del solito schema nelle relazioni, i musicisti jazz “falliscono” quando rimangono con ciò che è sicuro e noto.

Dobbiamo pensare oltre “l’invio di messaggi”.